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Le lettere degli architetti

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5 agosto 2009

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Nel 1996 ho aperto/fondato anch'io una società di ingegneria. Oggi partecipiamo a circa 1000, 1500 gare d'appalto l'hanno. Lavoriamo un po' ovunque: in Calabria, Campania, Lazio, Puglia, Abruzzo, Toscana, Emilia Romagna, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia. Credo che l'organizzazione del mio studio, pari a quella di molti colleghi, sia al passo, congruente con i tempi.
Lo Studio è a Trieste. I km che facciamo in un anno numerosissimi. Molte le collaborazioni con colleghi che stimiamo: Livio Sacchi, Maurizio Unali, Lorenzo Netti, Ricci & Spaini, Giorgio Goffi. Molte le occasioni di confronto in ambito culturale e pubblicistico, attraverso il lavoro svolto con la rivista Il Progetto e l'organizzazione di Mostre e Convegni…
Ciò che lamento è la carenza di occasioni concorsuali e la mancanza di una Legge per la qualità architettonica, che da anni tutti aspettiamo. Ricordo i propositi di ministri come Veltroni, Melandri, Urbani, mai sfociati in una legge seria. Anche l'esperienza condotta tra il 2001 e il 2002 come Assessore all'Urbanistica del Comune di Trieste, è stata, dal punto di vista "Concorsuale" per l'architettura, fallimentare.
Nonostante l'organizzazione di un grande concorso per la riqualificazione del fronte mare, cui parteciparono 97 studi internazionali, e l'esposizione dei relativi progetti alla Biennale di Sudijc, nessun esito concreto ha avuto luogo. Come per la maggior parte dei Concorsi di architettura italiani, i progetti sono rimasti proposte cartacee, cui è stata preferita una normale, banale, manutenzione straordinaria.
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Cristina Murphy e Andrea Bertassi
Lavorare in Italia non è mai facile, nemmeno quando -come facciamo noi di Xcoop- si cerca di farlo "da fuori". Abbiamo discusso spesso di rafforzare la nostra presenza in Italia ma fino ad ora non è stato mai davvero conveniente, proprio perché per ogni iniziativa richiede, in quel paese, molti più sforzi in tutti i sensi. Ci si accapiglia persino sulla questione del ruolo dell'architetto nella società contemporanea.
In tempi ed in modi diversi siamo stati allievi tanto di Gregotti quanto di Koolhaas, e crediamo che entrambi siano ottimi esempi di come un architetto possa e debba continuamente rivedere il proprio ruolo nella società. La nostra generazione ha avuto un'infanzia comoda ed un'adolescenza annoiata, e proprio per questo cerca nella professione quell'excitement che i nostri maestri non sempre hanno avuto il bisogno di inseguire. Mentre Gregotti scelse di impegnarsi per un'architettura al servizio della società, inseguendo persino romanticamente l'idea di un mondo migliore, di una comunità matura che sceglie il meglio per il suo divenire, Koolhaas è stato probabilmente il primo ad intuire la convenienza (economica) di vendere l'architettura alla strrgua di capi firmati, sfruttando le anomalie e le megalomanie di parti del mercato per piazzare le sue invenzioni. Ma ha cercato, almeno fino a poco tempo fa, di tenere il passo della costante accelerazione che lui stesso ha contribuito a costruire offrendo ottimi prodotti.
Tramontate le ideologie (e con esse una buona dose di fiducia in un futuro migliore) ed entrato il sistema capitalistico in grave crisi, Gregotti e Koolhaas hanno oggi in comune la grande difficoltà di lavorare in Italia. La situazione attuale richiede ai giovani progettisti di rimboccarsi le maniche per rimettere al centro la qualità, abbandonando sogni di gloria e misurandosi con un contesto globale, stroncando i provincialismi e le concentrazioni di potere così poco europee e cosi tanto italiane.
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Francesca
Per ovvi motivi preferisco omettere nome e città (chiedo anzi di non pubblicare nemmeno l'indirizzo mail!). Vediamo un po' cosa succede però all'interno degli studi, la politica di chi è già sul mercato nei confronti di chi è sulla scena da poco. Parlo per esperienza diretta: ho 31 anni, laurea in architettura nel 2003 al Politecnico di Milano, in 5 anni giusti più 6 mesi di preparazione tesi ed esame di stato superato immediatamente nello stesso anno.
Cosa è successo a me e cosa succede alla maggior parte dei miei coetanei che non hanno una loro attività e che si trovano a collaborare per studi tecnici? Si viene pagati in nero sui 600 euro al mese, oppure se si viene messi in regola bisogna aprire partita iva, diventando sulla carta un libero professionista ma nei fatti essendo meno di un dipendente: sì, perchè un dipendente ha diritto a ferie e malattie pagate, congedi, tredicesima, quattordicesima, premi produzione, ha i contributi pagati e le tasse anche. Un libero professionista in teoria avrebbe diritto a flessibilità di orari, di contro. In teoria... Perchè di fatto chi collabora a uno studio tecnico a questo regime si porta a casa 1000 euro lordi, da cui deve togliere irpef, irap, inarcassa (netti quanti euro restano in tasca a fine mese? 500-600 con cui uno dovrebbe tirare a campare, meno di un operaio part time non specializzato: come si fa a pensare di mettere su famiglia? O semplicemente di andarsene di casa?), lavorando però sulle 50 ore settimanali con orari rigidissimi -alla faccia della libera professione- e infinite storie quando si necessita di un permesso magari per una visita medica; non parliamo poi delle paroline magiche che tante donne, me compresa, si sentono dire: "se resti incinta sei fuori", oppure del mobbing attuato quando si comunica che ci si sposa (detto a me direttamente: "ma che ti sposi a fare? scordati di fare l'architetto"... e da lì principiarono per me giorni infernali).
  CONTINUA ...»

5 agosto 2009
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